“E’ giunto il momento che il mondo si muova in una direzione nuova”.
Ci si può rispecchiare e non rispecchiare in Barack Hussein Obama, si può condividere o non condividere la sua politica e il suo operato ma, di certo, non si può indugiare, né tantomeno negare, cosa sia stato Barack Obama per il mondo intero.
- di Luigi Gemelli
photo: U.S President Barack Obama speaks in front of the European Union Flag at the Hannover Messe Trade Fair in Hannover, Germany, on Monday. (Carolyn Kaster / Associated Press)
L’ASCESA POLITICA
Era il 2007 quando, dopo un’aspra contesa, sconfisse Hillary Clinton alle primarie del partito democratico. Una vittoria per niente scontata considerando i 32 punti di vantaggio che la Senatrice aveva a campagna appena iniziata. Obama era uno “sconosciuto”: Rudolph Giuliani lo definì “non capace di governare. Incompetente e senza alcuna esperienza nel governo di una città, figurarsi nel governare un popolo”. Ma la popolazione aveva voglia di cambiamento. Il mondo aveva voglia di cambiamento. Dopo un’infinita campagna, a tratti totalmente gratuita, innescata in suo favore da seguaci che vedevano, nella figura di Obama, una persona “come loro”, il 4 Novembre del 2008, l’esponente del Partito Democratico, vince le elezioni presidenziale contro il Senatore dell’Arizona John McCain. E’ il cambiamento che tutti aspettavano. Dopo le lotte di pensiero continue, lanciate 47 anni prima da Martin Luther King, un uomo afroamericano diventava l’uomo più potente del mondo.
Il successo di Barack Obama non fu dovuto soltanto alla sua propensione per un’ars oratoria diretta e semplice ma, in primis, per il suo essere uomo del popolo. I suoi modi di fare, le sue parole, le sue attenzioni, facevano sì che non fosse soltanto un Presidente, bensì il Presidente. La sua campagna elettorale, così come le sue dichiarazioni, erano rivolte ad una moltitudine di persone sia che fossero a favore sia che non lo fossero. I suoi argomenti non erano diretti soltanto ad una specifica cerchia di elettori ma a tutto il popolo. Forse, per la prima volta in America, un Presidente sedeva per il popolo e non soltanto per i suoi alleati.
LA GRANDE RECESSIONE
Obama, dopo essere stato eletto, deve affrontare la più grande crisi della storia americana: probabilmente, una recessione più grande di quella del ’29. E’ qui che, per la prima volta fin dalla sua propaganda delle primarie, mette in pericolo la sua figura e la sua fiducia da parte del popolo decidendo di rischiare il tutto per tutto. La prima grande decisione del suo mandato. Dopo aver consultato autorevoli economisti, e aver cercato l’appoggio dei Repubblicani (cosa di cui non aveva bisogno avendo già la maggioranza), e che i Repubblicani negarono all’unanimità, decide di seguire gli insegnamenti della storia: bisognava elargire soldi alle banche affinché, queste ultime, potessero iniziare a garantire prestiti ai cittadini. In una sua recente intervista per History Channel, afferma: “sono stato visto come il diavolo che finanzia i colpevoli”. Il futuro, comunque, gli darà ragione.
L’OBAMACARE
Punto focale della sua campagna elettorale fu il cd. Obamacare: la possibilità di fornire, a tutti i cittadini, la prevenzione sanitaria. Era dai tempi di Theodore Roosevelt (mandato presidenziale dal 1901 al 1909) — repubblicano — che i democratici inseguivano questo sogno. Ben più di cento anni per far sì che “un privilegio venga finalmente riconosciuto come diritto” — dirà Obama nel 2009. In una recente intervista, Valerie Jarret — consigliere politico di Barack Obama — racconta: “la sera in cui passò l’Obamacare, prima della festa, chiesi al Presidente se fosse più felice per questa serata o per la sua cerimonia di insediamento. Mi disse: ‘Valerie, non c’è paragone, la sera delle elezioni serviva per arrivare a questo’”.
Inutile constatare quanto, questo provvedimento, fosse un passo in avanti per qualsiasi democrazia. In Europa ci pensiamo poco, è talmente scontato avere la previdenza sanitaria che, spesso, lo dimentichiamo. Pensiamo invece a quante persone, questo provvedimento, potesse fare comodo: stiamo parlando di circa 32 milioni di cittadini con la possibilità di poter accedere a quello che, da noi, è un diritto.
Anche questa volta, però, le critiche interne non mancarono. Probabilmente a causa della diversa cultura e della diversa storia degli Stati Uniti, i Repubblicani acquistarono maggior consenso nel popolo con il rischio di una non rielezione di Barack Obama.
IL SECONDO EMENDAMENTO
Il 14 dicembre 2012, il massacro alla Sandy Hook Elementary School in Newtown, Connecticut, che causò la morte di 27 persone (20 delle quali erano bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni), scosse l’opinione pubblica insediando, al Presidente Obama, l’ossessione, e la priorità, di ostacolare una partecipazione troppo “semplice” all’entrata in possesso dell’uso delle armi.
Il sabato successivo, durante il suo intervento, in cui aveva rifiutato di usare i commenti scritti dal suo ufficio al riguardo, Obama dichiarò: “Ogni genitore in America ha il cuore colmo di dolore. La maggior parte delle persone morte erano bambini piccoli, con un’intera vita davanti a loro. Tra le persone uccise anche insegnanti che hanno dedicato la loro vita ad aiutare i nostri figli a realizzare i loro sogni. I nostri cuori sono infranti oggi. Siamo addolorati per le famiglie di quanti ci sono venuti a mancare. Siano adottate azioni significative per prevenire il ripetersi di tragedie come queste”. Abbracciando uno per uno i familiari delle vittime, tornò a Washington deciso a prendere provvedimenti al riguardo.
Firmò 23 decreti (nel gennaio 2013) e propose 12 misure parlamentari per il controllo delle armi. Questo portò al “pericolo” di non sopravvivenza del secondo emendamento della Costituzione americana. Inutile ribadire le critiche interne di cui tutti siamo a conoscenza. Quattro mesi dopo il massacro, il Congresso, boccia definitivamente l’abolizione del secondo emendamento fin troppo caro alla maggioranza dei repubblicani e, anche, alla minoranza dei democratici.
Dopo la bocciatura da parte del Congresso, assistiamo ad un comizio di Obama senza alcuna formalità. E’ un comizio secco, fin toppo acceso, dove denuncia la mancanza di sentimenti e di obiettività del Congresso. Per la prima volta, il Presidente Obama, personalizza la sua visione politica affermando: “Quello che faccio come politico rispecchia ciò che sono io come persona”.
LA POLITICA ESTERA
Agli inizi del suo mandato, gli Stati Uniti avevano una popolarità e una stima estera molto al di sotto di quella che possedevano la Russia e la Cina. Anni di conflitti armati, delineati da una politica interventista senza un’attenta analisi del dopo, avevano portato gli Stati Uniti d’America ad essere visti come “invasori” soprattutto nei territori islamici.
Volendosi diversificare dai suoi predecessori, nel 2009, Obama si presenta al Cairo per un comizio in cui tende la mano agli islamici. Durante il “A New Beginning” afferma: "Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e Islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono principi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani”, Obama pone l'accento su ciò che unisce Stati Uniti e musulmani, dopo anni di "paura e diffidenza", che hanno invece evidenziato le differenze. E insiste sulla necessità di inaugurare una nuova era - anche se, riconosce, "non basterà un solo discorso a sradicare anni di diffidenza" - superando stereotipi negativi, da entrambe le parti. Sia sull'Islam che sugli Stati Uniti d'America: "Proprio come i musulmani non rientrano in un crudo stereotipo", dice, "lo stesso accade per l'America, che non è un impero interessato solo a sé stesso".
Questo è il primo di una lunga seria di discorsi e incontri che il Presidente degli Stati Uniti intraprende con i più differenziati esponenti stranieri in tutto il globo. La politica del “riconoscere i propri errori” e del “lavoro unitario globale” non vanno giù, però, ai conservatori americani. Un’atteggiamento del genere pone in essere una “debolezza”, apparente o reale, della Nazione interventista per eccellenza.
Nel 2011, quella che doveva essere una delle tante “primavere arabe” a cui stava assistendo il mondo, si trasforma, in Siria, nella guerra di tutti e di nessuno. Il paradosso di questa politica “amichevole” causa la noncuranza da parte del governo Siriano di non rinunciare all’uso delle armi chimiche nonostante si sia imposta una “linea rossa” da parte di Obama. Obama, che non ha intenzione di impiegarsi in un’altra guerra senza prima avere le idee chiare sul dopo, vacilla sulle proprie decisioni. “La guerra in Siria mi ossessiona tutt’ora. Non c’era, e non c’è, nessuna decisione da intraprendere che fosse un minimo soddisfacente”. Impostando la linea rossa, comunque, decise di intervenire almeno per eliminare la possibilità di uso delle armi chimiche che, successivamente, vennero tolte.
Il Presidente che, fino a un paio di anni prima, impostò come priorità la cattura del più grande latitante della storia, Osama Bin Laden, rischiando, nel caso l’intervento fosse andato male, una reazione atomica da parte del Pakistan, si stava ora “indebolendo” agli occhi del popolo americano. Per lo più, molto realisticamente, la persona più influente del mondo, stavo soltanto usando un po’ di criterio prima di commettere altri errori di portata mondiale. “Cose terribili avvengono nel mondo e tu capisci che non puoi risolverle tutte. Non voglio che si verifichi mai più un altro Vietnam. Se si mandano donne e uomini a morire in guerra, bisogna avere una strategia. Al momento, questa strategia non c’è” — Barack Obama.
Le critiche interne, comunque, non ebbero pietà per questa “indecisione” affermando che il presente comportamento non è un comportamento che ci si aspetterebbe da una superpotenza.
OGGI E L’UNIONE EUROPEA
Dopo i tratti salienti di questi otto anni di presidenza Obama — volutamente sintetizzati, selezionati e con commenti puramente soggettivi — passiamo ora a quello che il presidente Obama ha significato, o poteva significare, per il mondo intero. Barack Obama ha saputo delineare la sua politica secondo principi famigliari. Tutti abbiamo potuto riconoscere in lui una persona comune devota alla causa, al popolo e alla famiglia. Gli innumerevoli provvedimenti per l’ambiente, l’abitudine, e l’obbligo (da parte di Michelle Obama), di tornare per cena ogni sera alle 18:30, l’infinito amore dimostrato verso la famiglia e il suo tono colloquiale, hanno fatto sì che Obama non fosse solo il presidente di una nazione ma del mondo intero.
E’ riuscito a far comprendere al mondo che, pur avendo un passato diverso, pur essendo cresciuto in una cultura diversa, chiunque, dal più piccolo paesino del mondo, può diventare la persona più importante e più influente del pianeta.
In un articolo uscito sul The Atlantic, Ta-Nehisi Coates afferma: “Barack Obama è stato uno dei migliori presidenti della storia statunitense. Ma ha sbagliato a pensare che la sua presidenza potesse unire il paese. In realtà ha scatenato la rabbia dei bianchi che ha contribuito all’elezione di Donald Trump”.
Personalmente, reputo le affermazioni di Coates corrette. Quello a cui stiamo assistendo oggi è un passo indietro grandissimo da parte degli Stati Uniti. Dopo otto anni di utopica aggregazione che, comunque, a lungo termine rende sempre giustizia, stiamo assistendo ad una escalation di dichiarazioni populiste e nazionaliste da parte del neo presidente eletto. Questo, però, per quanto possa svantaggiare l’America, rappresenta un grande vantaggio per l’Unione Europea. Proprio quell’Unione Europea così sostenuta dal Presidente Obama.
Nel mio modesto parere, l’Europa ha la possibilità di crescere e di espandere la propria concezione. Dobbiamo trarre insegnamento proprio dal lascito di Barack Obama. Mai, più di ora, l’Europa sente, o deve sentire, la necessità di un'unione sotto un’unica voce. E’ arrivato il momento di abbandonare l’idea degli Stati Sovrani per una evoluzione, che la storia insegna essere naturale, a favore di una Unione sotto un unico rappresentante (sia esso parlamentare o presidenziale). E’ per questo che, ogni cittadino, italiano ed europeo, deve necessariamente boicottare qualsiasi riforma ad iniziativa populista e nazionalista. I giovani, più degli altri, devono lottare affinché quello che hanno creato i loro padri non venga vaporizzato. Bisogna unirsi e creare delle condizioni ottimali affinché questo “allontanamento” degli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, non diventi la costruzione di una bara coperta da una bandiera blu a stelle gialle ma che, questa bandiera, possa essere issata in ogni ideale da qui per l’avvenire.
“L’opzione migliore è cogliere questa occasione per raggiungere finalmente la maturità. L’Europa non può più essere solo un successo commerciale e monetario, ma deve ritrovare il cammino verso la crescita e dotarsi degli strumenti necessari per avere una maggiore autonomia in campo militare, in quella della ricerca e sviluppo e nella gestione delle sfide del futuro, a cominciare dall’immigrazione. Se non vuole diventare irrilevante, l’Unione deve prendere atto della volta rappresentata dall’elezione di questo presidente: gli Stati Uniti si stanno ripiegando sul loro lato più protezionista e pensano di non avere più bisogno degli alleati europei” (Le Monde)
Per terminare, Barack Obama avrebbe dovuto essere il presidente utopico dell’Europa. L’America è fin troppo radicalizzata per essere progressista in tempo con i tempi storici: eppure è riuscita ad esserlo (vedi la questione unioni civili) con la guida giusta. Noi, pur conservando ideali radicali e conservatori, a causa di una storia e una cultura, a base cristiana ed ebraica, e ad una consuetudine nazionalista, abbiamo la voglia di migliorare ma non abbiamo mai avuto i mezzi per farlo. Avremmo bisogno di una personalità come quella dell’ex presidente Obama: una personalità che possa unire i popoli, che possa far vedere quanto le differenze arrechino paura solo a causa dell’ignoranza, che possa farci sentire uniti sotto un’unica bandiera.
I tempi sono maturi. Ma dobbiamo lottare contro il sistema. La base economica dell’Unione, così tanto criticata, non deve essere una scusa per dividerci ma la causa per andare avanti, per crescere, per aumentare i nostri diritti e i nostri poteri.